Il film americano “Into the Wild” ha lasciato una impronta profonda in molte persone. Ho la netta impressione che abbia dato un impulso notevole a trasformare la propria vita giocandosi tutto per recuperare una dimensione umana e terrestre. Cambiare lavoro, vagare in mezzo al verde, sviluppare progetti artistici che armonizzino arte e natura. Vivo in prima persona questa esigenza vitale, anche se il film l'ho visto in dvd un anno dopo l'uscita. Mi ha colpito intensamente, sia per la partecipazione emotiva, che per il finale tragico e il pensiero che un uomo geniale abbia veramente vissuto una vita così.
C'ho riflettuto a lungo ed ho capito che è un film profondamente americano, che incita e mette in guardia allo stesso tempo al mito del ritorno alla natura senza limiti. Il gesto di bruciare il denaro nel deserto credo che per un americano sia un gesto sconvolgente e potentemente liberatorio. Ma io che statunitense non sono ho altre strade per ritrovare la sintonia coi cicli viventi. L'anno scorso ho passeggiato da solo lungo la Piave per una settimana (vedi www.artepiave.it), quest'anno ho invitato ad un fine settimana di creatività in natura una decina di amici artisti. E ancora: ho presentato la mostra “Wild look” di Girardi e Castellani allo Spazio Rampon di San Donà, poi ho conosciuto quel gagliardo Filippo Binaghi che da tre anni gira l'Italia portando il suo pianoforte in posti impensabili (il tour si intitola non a caso “Wild Piano”). Come un linguaggio cifrato trasmesso da Radio Londra per attivare i partigiani così quel film ha acceso molti cuori e li ha spinti ad agire simultaneamente.
Per la mostra Wild Look avevo preparato un testo in cui avevo delineato la categoria del “selvatico”. Traduco “selvatico” e non “selvaggio” l'aggettivo “wild” perchè ormai di selvaggio e incontaminato nella vecchia Europa (e poi nel mondo) non è rimasto nulla: resta però, nei ritagli delle lottizzazioni e ai margini della nostra coscienza razionale l'intero mondo naturale non più minaccioso ma ancora animato dalla ricerca di nuovi equilibri nei frammenti di paesaggio tra un capannone e una casa. Se dicessi “selvaggio” la fantasia correrebbe alla giungla o alle savane africane e includerei un giudizio di valore in cui “civilizzato” è migliore di “selvaggio”. Il selvatico invece ci riporta ad una realtà complementare al domestico: ci sono animali e piante domestici e animali e piante selvatici.
Dobbiamo riconoscere la necessità del mondo selvatico nella nostra vita: per alimentare una cultura in armonia con la terra dobbiamo accettare innanzitutto la nostra parte selvatica, quella che istintivamente ci mette in sintonia con i nostri bisogni vitali, quella che ci spinge a camminare tra i boschi, a innalzarci sulle vette delle montagne, ad accorgerci del trascorrere delle stagioni. A questo proposito consiglio agli uomini il bel “l'uomo selvatico” di Risè e alle donne il classico “Donne che ballano coi lupi”. Il rapporto col selvatico ci aiuta a superare la visione antropocentrica: la civiltà umana fa parte di uno spazio più ampio che include tutto il sistema organico del pianeta vivente, Gaia. Entrando in comunione con ciò che umilmente vive attorno a noi, senza rabbia, senza giudizi, riscopriamo intuitivamente la gerarchia dei bisogni fondamentali dell'essere umano e di ogni essere.
E' questo l'anticorpo alle ideologie, alle paure, ai bisogni indotti: ricordarsi di prendere la vita così com'è, con un solido buon senso che si trova nei vecchi contadini come nei grandi maestri spirituali. Se intraprendiamo questo percorso troviamo in noi una insospettata forza per cambiare i nostri desideri, i nostri pensieri e la nostra vita. Diamo spazio al selvatico, lasciamoci istruire dalla capacità di trovare continuamente nuovi equilibri dinamici! Non è più possibile la fusione inconsapevole come ai tempi del giardino dell'Eden ma è necessaria ora la contaminazione creativa, per rimetterci in gioco come portatori di vita, creatori di nuovi spazi antropizzati e selvatici al tempo stesso: con più alberi, più animali, più spazio per le acque e meno confini, meno asfalto e meno discariche.
Stiamo sviluppando, ciascuno individualmente, la coscienza di vivere in un sistema organico, dove ogni cosa è collegata. E' fallita la visione meccanicista, dominatrice, razionale e maschilista del mondo. Ogni mia scelta porta conseguenze a tutto il sistema vivente. E' come una danza di gruppo: solo che spesso noi balliamo ciascuno su una musica distorta, perchè filtrata dal nostro egoismo, dalla nostra visione ristretta. Eppure i nostri cuori battono all'unisono, ma nel troppo rumore di TV accese e traffico intenso fatichiamo a sentirlo. Provate ad abbracciare un albero: ricomincerete a sentire il vostro cuore che batte: l'amico frondoso vi ricorda che siete vivi e capaci di amare. E' così che il principe Siddharta divenne il Budda meditando sotto un ficus religiosa ed è così che Gesù Cristo nel giardino degli Ulivi, trovò la forza di superare la Passione e risorgere a nuova vita, quella che, in questi anni di Apocalisse, ha portato i semi di una nuova civiltà umana.
Grande Francisco! In questo contesto da te chiaramente illustrato, il mio definirmi "pecorella selvatica" trova comprensione profonda. E' bello vedere che ogni tanto qualcuno al mondo sa mettere a parole quel che ho nella mia folle testa di pecorella, selvatica, ma ancora ignorantella!
RispondiEliminacarissima pecorella, per nulla smarrita, ho dimenticato di citare una delle più belle frasi del diario del protagonista esiliatosi in alaska: "nessuna gioia è vera gioia se non è condivisa". un abbraccio
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